giovedì 6 gennaio 2011

LA CASA

La casa è ancora in piedi.

Le reti di protezione non mitigano il senso di precarietà, ma una strana sicurezza di esserci ancora, di resistere, di segnare quell’angolo di paese, attraversa l’aria gelida di un mattino d’inverno.

Strano accorgersi solo ora che quell’edificio non avrà più vita lunga e che presto sarà abbattuto e chissà cosa comparirà a cambiare in maniera indelebile il profilo dello slargo chiamato dai vecchi “alla campana”, per la sua forma che, dal budello stretto di Via Piave, scendendo da Maniagolibero prima e poi da Maniago di Mezzo, si apre a dare respiro per richiudersi e proseguire seguendo le curve delle case e dei portoni affiancati, che costituivano lo scheletro del paese vecchio.

Oltre, gli orti, le cente e più in là i campi, ordinati su antichi tracciati, dove sassi, gelsi, canali, costituivano le allora linee di confine.

La casa sta lì, nello slargo, disegnando il colmo della campana verso sud, la parte aperta sui campi con il fianco che prosegue con un muretto sul quale, fino agli anni ’50, stava appoggiata la fontana.

Sull’altro lato il complesso del Palazzo Centa, elegante e severo, racchiude all’interno un giardino unico e raro, a memoria di tempi dove le case padronali ostentavano i ruoli sociali, separandosi in modo netto dal resto del contesto.

La casa dei Mauro chiude la base della fontana. Su quel lato stava “l’osteria alla campana”.

Sul lato della strada la casa comunica un senso di vissuto, di storie, di persone, sensazioni date dal sovrapporsi di elementi diversi, dai materiali usati e dai tempi che ne hanno determinato la costruzione.

Dal basso edificio in sasso squadrato e solido, al portone di legno massiccio che si apriva all’interno sulla “laubia”, alla torre, costruita sullo zoccolo di quella parte che un tempo era la stalla e il ricovero degli attrezzi, in sassi piccoli e quadri e infine la parte in mattoni di cemento, costruita in seguito e per chissà quali bisogni.

Nella luce gialla della sera la torre quadrata porta ad immaginare altre storie, altre architetture, emergendo altera e imponente a difendere “castelli in aria” e intrecci inventati.

La realtà è molto più semplice, un muro elevato per creare altro spazio a una o più famiglie arrivate lì da altri luoghi, altri paesi.

L’interno è una pila di stanze, con una scala esterna, ripida e fredda in inverno, sulla quale, in estate, ricordo, si affacciavano facce di bambini, ora dimenticate, non più incontrate.

Un luogo di passaggi, di genti, estranei alla vita e alle relazioni familiari che attorno a quello spazio, la campana, costituivano il tessuto sociale del luogo.

I Mauro, fabbri del paese, hanno realizzato buona parte degli oggetti in ferro degli edifici pubblici: ringhiere, cancelli, recinti. Il disegno era semplice e riportava poche concessioni alla fantasia, foglie a lancia, squadrature, intrecci regolari, riccioli. Non erano oggetti d’arte, dovevano svolgere una funzione, servire a qualche scopo e avere costi contenuti. Il grosso del lavoro del fabbro era su attrezzi agricoli, animali, dalla ferratura ai chiodi, a tutto ciò che poteva servire alla gestione della vita quotidiana in una realtà rurale come era quella di Maniago nel ‘900. Anche chi lavorava in officina aveva il suo pezzo di centa da mantenere e, terminato il lavoro, era naturale dedicarsi alla cura degli orti e dei campi. Nei cortili e nelle laubie, ancora nella seconda metà del ‘900, stavano al riparo carri e carretti, qualcuno aveva nella stalla il “mus” e “Baci delle vache” attraversava il paese con il suo carro trainato da due imponenti buoi bianchi, dalle lunga corna e dal passo lento e cadenzato, che rimbombava, nei pomeriggi d’estate, dalla stretta delle strade e si riversava nei cortili. Era un uomo lungo e legnoso, dal sorriso storto e sdentato, incitava i buoi con voce profonda facendo schioccare una lunga frusta. Da bambina osservavo al sicuro, dietro il cancello di casa mia, opera dei Mauro, il passaggio di quell’antico trasporto, io che mi trovavo spesso seduta nelle lucide Mercedes di mio nonno e dei miei zii, non per ostentazione di chissà quali ricchezze, ma per il loro mestiere, quello di taxisti. Mio padre e mia madre non prenderanno mai la patente, per muoversi, gli zii e il nonno erano sempre disponibili.

Accanto alla casa dei Mauro c’è la casa del nonno Pilon. La famiglia Pilon scende in paese agli inizi del ‘900, dopo aver venduto la Val Piccola. Il nonno si stabilisce in una stanza al piano terra della casa dei Mauro, ne sposerà una delle figlie e il terreno, di proprietà della famiglia, gli viene in parte ceduto e in parte venduto. La casa del nonno è costruita un po’ alla volta, negli anni ’50 la scala esterna sarà chiusa e sarà costruita quella interna.

Il Palazzo dei Centa ha una sua storia risalente alla fine del 1700. Tre famiglie si succedono come proprietari del palazzo, finchè sarà acquistato nel 1934 dalla famiglia Centa, che vanta Antonio Centa, attore di cinema. I Centa sul territorio aprirono alcune ferramenta. Prima mio nonno e poi mio padre, per 40 anni, lavoreranno come commessi nel negozio dei fratelli Centa, chiamati “i paroni”.

All’inizio di Via Umberto I stava la bottega di Itala, cugina di mio padre, un bugigattolo quadrato, pieno di cose, di odori e di colori. Ricordo in particolare la cioccolata a quadrettoni e, negli anni ’60, il tetra pak, geometria applicata all’uso: si tagliava la punta della piramide per versare il latte, la base teneva il contenitore in posizione quando si appoggiava nel frigorifero, impedendo al liquido di fuoriuscire. Il passaggio del contenitore è stato repentino: dalla “gamela” con la quale si prendeva un litro di latte presso la latteria, al tetra pak in modo quasi fulmineo (un piccolo periodo con le bottiglie di vetro), seguendo la diffusione dei frigoriferi nelle case e ancor di più l’ammodernamento delle aziende agricole e la commercializzazione societaria del latte.

Davanti alla bottega di Itala il forno dei Coassin, che spandeva profumo di pane per tutto il quartiere, la bottega del barbiere Severino e il negozio della Nuccia, dove si trovava dal filo, alla lana, alle camicie da notte, a vari tipi di biancheria, a vestiti, maglie e molto altro ancora. Ognuno di questi luoghi meriterebbe una storia a sé, ma presi nell’insieme erano punti di vita, di incontri, di scambi, di conversazioni, che rendevano vivo il luogo e dove c’era un’animazione inimmaginabile per chi non l’ha vissuta e per chi la confronta con l’oggi, angolo silenzioso e tranquillo del paese.

La casa, accanto al portone, aveva una grande pietra, modellata dal tempo e dalle intemperie, dove, nei pomeriggi e nelle sere calde d’estate si sedeva la signora Mariuta a guardare e chiacchierare con chi passava da lì. Era una donna minuta e magrissima, vestita di nero, con le sue figlie, Alba, Virginia e Cesarina, abitava nella casa.

Alba e Virginia erano sarte e la loro casa era un via vai continuo di donne, un luogo di incontro, di chiacchiere, più o meno velenose, sulla gente e i fatti del paese. Il luogo delle novità, “il sito delle news”, un blog aggiornato, un facebook dove incrociare persone note o meno note, insomma un internetpoint delle relazioni e della vita di un paese.

Mia madre amava cucire e ogni tanto passava qualche ora del pomeriggio nella casa, per farsi consigliare e aiutare nei suoi lavori dalle due sarte. Era una donna molto riservata, non aveva amicizie al di fuori della famiglia e questi momenti erano l’unica concessione alla vita pubblica.

Si entrava nella casa da una porticina piccola in legno e vetro smerigliato a quel tempo colorata di grigio. Si scendevano un paio di gradini di pietra bianca, scavati dai passi nel tempo. La casa si trovava più in basso rispetto al piano strada, seguiva probabilmente l’andamento e gli sbalzi del terreno. Va ricordato che lungo l’attuale Via Battisti passava il “rugo” e l’acqua scorreva veloce verso i campi, trasportata dalla naturale pendenza del terreno.

Dalla porta d’ingresso si apriva un corridoio stretto e scuro, sul fondo l’altra porta per uscire nel cortile.

A sinistra lo “stansin”, la stanza di comodo, con il tavolo rotondo, ricoperto da una tovaglia ricamata. In tutte le case c’era lo “stansin”, la “stansia”, il “salotto buono”, dove accogliere le persone di una certa importanza: il prete, il medico, il paron o quanti rivestivano ruoli pubblici o incarichi di governo nel paese. Era il luogo delle buone o cattive notizie –di più le seconde-, soprattutto in tempo di guerra quando la visita del prete spesso annunciava la morte di un figlio.

Lo stansin della casa serviva alle due sarte per la prova degli abiti. Era un posto dove le donne potevano spogliarsi con riservatezza e provare la gonna, il vestito, il tailleur e sistemarne la lunghezza, la larghezza, la forma. Qui i balconi erano sempre a “côp” per impedire che fuori si sbirciasse all’interno.

A destra nel corridoio si trovava la stanza da lavoro delle due sarte. Qui la finestra aveva gli scuri sempre aperti per far entrare più luce possibile. Un grande tavolo per tagliare i pezzi di stoffa stava appoggiato al muro, la macchina da cucire a pedale era posta sotto la finestra. Per il resto c’erano diverse sedie dove le sarte e le donne del paese si sedevano a cucire e chiacchierare.

Non amavo cucire e nonostante i tentativi di Alba e Virginia non ho imparato molto da quelle ore passate con mia madre. Mi incantava di più Cesarina, la più giovane delle sorelle, che, in attesa del matrimonio, lavorava a casa, nella cucina, a preparare le molle dei trinciapolli.

In quegli anni di boom economico, le fabbriche artigianali lavoravano producendo semilavorati per altre fabbriche o industrie. Il lavoro era molto e nelle famiglie del paese si eseguivano alcuni dei passaggi per la preparazione dei semilavorati. Era un lavoro pagato a cottimo, tante casse facevi, tanto guadagnavi.

Cesarina aveva un macchinario meccanico, si inseriva il pezzo di acciaio e si tirava forte la leva. L’acciaio si arrotolava su se stesso e si formava la molla. Di questo lavoro, assolutamente ripetitivo e noioso, mi affascinava la trasformazione, la potenza del gesto che cambiava un pezzo triangolare e piatto d’acciaio, in un oggetto complesso, tridimensionale ed elastico.

Quando mi stancavo delle chiacchiere, dei fili e delle molle, uscivo in cortile. La casa aveva una scala ampia in pietra bianca che saliva al piano superiore dove c’erano le camere delle tre sorelle. La signora Mariuta dormiva nella quarta stanza al piano terra, di fronte alla cucina. Su ogni gradino della scala stava posato un vaso di geranei, in contenitori disparati, per lo più di latta.

C’era un po’ di orto e alberi da frutta, un grande fico si allungava fino alle finestre della cucina e i rosai stavano appoggiati lungo il muro di confine.

C’era poi la laubia con il portone in legno massiccio sempre chiuso, solo una porticina, ricavata al suo interno, rimaneva aperta per consentire alle persone di recarsi dal calzolaio che per alcuni anni si sistemerà in un bugigattolo sul lato verso sud, quello in mattoni di cemento.

La parte della torre era proibita, era altra gente, non dovevo parlarci, non li conoscevo e così, ricordando gli ammonimenti di mia madre, stavo seduta sui gradini della scala osservando e riempiendomi gli occhi e le orecchie di ciò che succedeva: donne che gridavano e sgridavano bambini, richiami, via vai dentro e fuori, secchi d’acqua rovesciati nel cortile, profumi pungenti di cibo, occhi grandi e scuri che spiavano dalle fessure della ringhiera in legno della torre.

La memoria di queste persone non è rimasta né a me, né a mia zia Alba, ufficio d’anagrafe del luogo, a testimoniare l’assoluta indifferenza verso persone considerate “altre” in un mondo chiuso che aveva lo scopo di preservare ritmi, ruoli e quotidianità proprie.

La casa subirà danni molto gravi con il terremoto del 1976. Le tre sorelle si trasferiranno in altre abitazioni e con il tempo hanno lasciato la loro professione.

Da allora la casa è rimasta disabitata, ma c’è comunque stata, con i suoi particolari, la sua forma curva, la torre ardita e alla sera, nella luce gialla, sembra ancora viva.

Respira di vita propria, slegata dalle vicende e dal passare del tempo.

Solo la plastica verde che l’ha incartata e i molti cartelli di pericolo la riportano al presente e ad una memoria che non accetta di veder sparire con i muri anche le storie.

Le strade che conducono agli orti conservano ancora intatti i tratti dei volti

I nomadi- Le strade


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