sabato 29 gennaio 2011

I RAGAZZI SE NE FREGANO

“Cosa pensano o dicono i ragazzi di tutto quello che sta succedendo in Italia in questo momento?”. Suona così la domanda che i giornalisti spesso mi pongono, dal momento che ho la fortuna di entrare in contatto con molti giovani. Così mi è stato chiesto anche per quest’articolo..... dal blog di A.D'Avenia

domenica 23 gennaio 2011

PETTI

Ogni inverno una colonia di pettirossi abita gli spazi dei cortili dove può tranquillamente trovare cibo disponibile: mele, cachi e bacche. Petti è bello grasso.

150 anni Unità d'Italia

La percezione dell'italianità in reportage fotografici, realizzata da scuole di 40 paesi. Le 150 foto più significative, insieme a commenti e suggerimenti di autorevoli studiosi, sono stati pubblicati nel volume "150 foto per i 150 anni" visibile il catalogo.

giovedì 6 gennaio 2011

LA CASA

La casa è ancora in piedi.

Le reti di protezione non mitigano il senso di precarietà, ma una strana sicurezza di esserci ancora, di resistere, di segnare quell’angolo di paese, attraversa l’aria gelida di un mattino d’inverno.

Strano accorgersi solo ora che quell’edificio non avrà più vita lunga e che presto sarà abbattuto e chissà cosa comparirà a cambiare in maniera indelebile il profilo dello slargo chiamato dai vecchi “alla campana”, per la sua forma che, dal budello stretto di Via Piave, scendendo da Maniagolibero prima e poi da Maniago di Mezzo, si apre a dare respiro per richiudersi e proseguire seguendo le curve delle case e dei portoni affiancati, che costituivano lo scheletro del paese vecchio.

Oltre, gli orti, le cente e più in là i campi, ordinati su antichi tracciati, dove sassi, gelsi, canali, costituivano le allora linee di confine.

La casa sta lì, nello slargo, disegnando il colmo della campana verso sud, la parte aperta sui campi con il fianco che prosegue con un muretto sul quale, fino agli anni ’50, stava appoggiata la fontana.

Sull’altro lato il complesso del Palazzo Centa, elegante e severo, racchiude all’interno un giardino unico e raro, a memoria di tempi dove le case padronali ostentavano i ruoli sociali, separandosi in modo netto dal resto del contesto.

La casa dei Mauro chiude la base della fontana. Su quel lato stava “l’osteria alla campana”.

Sul lato della strada la casa comunica un senso di vissuto, di storie, di persone, sensazioni date dal sovrapporsi di elementi diversi, dai materiali usati e dai tempi che ne hanno determinato la costruzione.

Dal basso edificio in sasso squadrato e solido, al portone di legno massiccio che si apriva all’interno sulla “laubia”, alla torre, costruita sullo zoccolo di quella parte che un tempo era la stalla e il ricovero degli attrezzi, in sassi piccoli e quadri e infine la parte in mattoni di cemento, costruita in seguito e per chissà quali bisogni.

Nella luce gialla della sera la torre quadrata porta ad immaginare altre storie, altre architetture, emergendo altera e imponente a difendere “castelli in aria” e intrecci inventati.

La realtà è molto più semplice, un muro elevato per creare altro spazio a una o più famiglie arrivate lì da altri luoghi, altri paesi.

L’interno è una pila di stanze, con una scala esterna, ripida e fredda in inverno, sulla quale, in estate, ricordo, si affacciavano facce di bambini, ora dimenticate, non più incontrate.

Un luogo di passaggi, di genti, estranei alla vita e alle relazioni familiari che attorno a quello spazio, la campana, costituivano il tessuto sociale del luogo.

I Mauro, fabbri del paese, hanno realizzato buona parte degli oggetti in ferro degli edifici pubblici: ringhiere, cancelli, recinti. Il disegno era semplice e riportava poche concessioni alla fantasia, foglie a lancia, squadrature, intrecci regolari, riccioli. Non erano oggetti d’arte, dovevano svolgere una funzione, servire a qualche scopo e avere costi contenuti. Il grosso del lavoro del fabbro era su attrezzi agricoli, animali, dalla ferratura ai chiodi, a tutto ciò che poteva servire alla gestione della vita quotidiana in una realtà rurale come era quella di Maniago nel ‘900. Anche chi lavorava in officina aveva il suo pezzo di centa da mantenere e, terminato il lavoro, era naturale dedicarsi alla cura degli orti e dei campi. Nei cortili e nelle laubie, ancora nella seconda metà del ‘900, stavano al riparo carri e carretti, qualcuno aveva nella stalla il “mus” e “Baci delle vache” attraversava il paese con il suo carro trainato da due imponenti buoi bianchi, dalle lunga corna e dal passo lento e cadenzato, che rimbombava, nei pomeriggi d’estate, dalla stretta delle strade e si riversava nei cortili. Era un uomo lungo e legnoso, dal sorriso storto e sdentato, incitava i buoi con voce profonda facendo schioccare una lunga frusta. Da bambina osservavo al sicuro, dietro il cancello di casa mia, opera dei Mauro, il passaggio di quell’antico trasporto, io che mi trovavo spesso seduta nelle lucide Mercedes di mio nonno e dei miei zii, non per ostentazione di chissà quali ricchezze, ma per il loro mestiere, quello di taxisti. Mio padre e mia madre non prenderanno mai la patente, per muoversi, gli zii e il nonno erano sempre disponibili.

Accanto alla casa dei Mauro c’è la casa del nonno Pilon. La famiglia Pilon scende in paese agli inizi del ‘900, dopo aver venduto la Val Piccola. Il nonno si stabilisce in una stanza al piano terra della casa dei Mauro, ne sposerà una delle figlie e il terreno, di proprietà della famiglia, gli viene in parte ceduto e in parte venduto. La casa del nonno è costruita un po’ alla volta, negli anni ’50 la scala esterna sarà chiusa e sarà costruita quella interna.

Il Palazzo dei Centa ha una sua storia risalente alla fine del 1700. Tre famiglie si succedono come proprietari del palazzo, finchè sarà acquistato nel 1934 dalla famiglia Centa, che vanta Antonio Centa, attore di cinema. I Centa sul territorio aprirono alcune ferramenta. Prima mio nonno e poi mio padre, per 40 anni, lavoreranno come commessi nel negozio dei fratelli Centa, chiamati “i paroni”.

All’inizio di Via Umberto I stava la bottega di Itala, cugina di mio padre, un bugigattolo quadrato, pieno di cose, di odori e di colori. Ricordo in particolare la cioccolata a quadrettoni e, negli anni ’60, il tetra pak, geometria applicata all’uso: si tagliava la punta della piramide per versare il latte, la base teneva il contenitore in posizione quando si appoggiava nel frigorifero, impedendo al liquido di fuoriuscire. Il passaggio del contenitore è stato repentino: dalla “gamela” con la quale si prendeva un litro di latte presso la latteria, al tetra pak in modo quasi fulmineo (un piccolo periodo con le bottiglie di vetro), seguendo la diffusione dei frigoriferi nelle case e ancor di più l’ammodernamento delle aziende agricole e la commercializzazione societaria del latte.

Davanti alla bottega di Itala il forno dei Coassin, che spandeva profumo di pane per tutto il quartiere, la bottega del barbiere Severino e il negozio della Nuccia, dove si trovava dal filo, alla lana, alle camicie da notte, a vari tipi di biancheria, a vestiti, maglie e molto altro ancora. Ognuno di questi luoghi meriterebbe una storia a sé, ma presi nell’insieme erano punti di vita, di incontri, di scambi, di conversazioni, che rendevano vivo il luogo e dove c’era un’animazione inimmaginabile per chi non l’ha vissuta e per chi la confronta con l’oggi, angolo silenzioso e tranquillo del paese.

La casa, accanto al portone, aveva una grande pietra, modellata dal tempo e dalle intemperie, dove, nei pomeriggi e nelle sere calde d’estate si sedeva la signora Mariuta a guardare e chiacchierare con chi passava da lì. Era una donna minuta e magrissima, vestita di nero, con le sue figlie, Alba, Virginia e Cesarina, abitava nella casa.

Alba e Virginia erano sarte e la loro casa era un via vai continuo di donne, un luogo di incontro, di chiacchiere, più o meno velenose, sulla gente e i fatti del paese. Il luogo delle novità, “il sito delle news”, un blog aggiornato, un facebook dove incrociare persone note o meno note, insomma un internetpoint delle relazioni e della vita di un paese.

Mia madre amava cucire e ogni tanto passava qualche ora del pomeriggio nella casa, per farsi consigliare e aiutare nei suoi lavori dalle due sarte. Era una donna molto riservata, non aveva amicizie al di fuori della famiglia e questi momenti erano l’unica concessione alla vita pubblica.

Si entrava nella casa da una porticina piccola in legno e vetro smerigliato a quel tempo colorata di grigio. Si scendevano un paio di gradini di pietra bianca, scavati dai passi nel tempo. La casa si trovava più in basso rispetto al piano strada, seguiva probabilmente l’andamento e gli sbalzi del terreno. Va ricordato che lungo l’attuale Via Battisti passava il “rugo” e l’acqua scorreva veloce verso i campi, trasportata dalla naturale pendenza del terreno.

Dalla porta d’ingresso si apriva un corridoio stretto e scuro, sul fondo l’altra porta per uscire nel cortile.

A sinistra lo “stansin”, la stanza di comodo, con il tavolo rotondo, ricoperto da una tovaglia ricamata. In tutte le case c’era lo “stansin”, la “stansia”, il “salotto buono”, dove accogliere le persone di una certa importanza: il prete, il medico, il paron o quanti rivestivano ruoli pubblici o incarichi di governo nel paese. Era il luogo delle buone o cattive notizie –di più le seconde-, soprattutto in tempo di guerra quando la visita del prete spesso annunciava la morte di un figlio.

Lo stansin della casa serviva alle due sarte per la prova degli abiti. Era un posto dove le donne potevano spogliarsi con riservatezza e provare la gonna, il vestito, il tailleur e sistemarne la lunghezza, la larghezza, la forma. Qui i balconi erano sempre a “côp” per impedire che fuori si sbirciasse all’interno.

A destra nel corridoio si trovava la stanza da lavoro delle due sarte. Qui la finestra aveva gli scuri sempre aperti per far entrare più luce possibile. Un grande tavolo per tagliare i pezzi di stoffa stava appoggiato al muro, la macchina da cucire a pedale era posta sotto la finestra. Per il resto c’erano diverse sedie dove le sarte e le donne del paese si sedevano a cucire e chiacchierare.

Non amavo cucire e nonostante i tentativi di Alba e Virginia non ho imparato molto da quelle ore passate con mia madre. Mi incantava di più Cesarina, la più giovane delle sorelle, che, in attesa del matrimonio, lavorava a casa, nella cucina, a preparare le molle dei trinciapolli.

In quegli anni di boom economico, le fabbriche artigianali lavoravano producendo semilavorati per altre fabbriche o industrie. Il lavoro era molto e nelle famiglie del paese si eseguivano alcuni dei passaggi per la preparazione dei semilavorati. Era un lavoro pagato a cottimo, tante casse facevi, tanto guadagnavi.

Cesarina aveva un macchinario meccanico, si inseriva il pezzo di acciaio e si tirava forte la leva. L’acciaio si arrotolava su se stesso e si formava la molla. Di questo lavoro, assolutamente ripetitivo e noioso, mi affascinava la trasformazione, la potenza del gesto che cambiava un pezzo triangolare e piatto d’acciaio, in un oggetto complesso, tridimensionale ed elastico.

Quando mi stancavo delle chiacchiere, dei fili e delle molle, uscivo in cortile. La casa aveva una scala ampia in pietra bianca che saliva al piano superiore dove c’erano le camere delle tre sorelle. La signora Mariuta dormiva nella quarta stanza al piano terra, di fronte alla cucina. Su ogni gradino della scala stava posato un vaso di geranei, in contenitori disparati, per lo più di latta.

C’era un po’ di orto e alberi da frutta, un grande fico si allungava fino alle finestre della cucina e i rosai stavano appoggiati lungo il muro di confine.

C’era poi la laubia con il portone in legno massiccio sempre chiuso, solo una porticina, ricavata al suo interno, rimaneva aperta per consentire alle persone di recarsi dal calzolaio che per alcuni anni si sistemerà in un bugigattolo sul lato verso sud, quello in mattoni di cemento.

La parte della torre era proibita, era altra gente, non dovevo parlarci, non li conoscevo e così, ricordando gli ammonimenti di mia madre, stavo seduta sui gradini della scala osservando e riempiendomi gli occhi e le orecchie di ciò che succedeva: donne che gridavano e sgridavano bambini, richiami, via vai dentro e fuori, secchi d’acqua rovesciati nel cortile, profumi pungenti di cibo, occhi grandi e scuri che spiavano dalle fessure della ringhiera in legno della torre.

La memoria di queste persone non è rimasta né a me, né a mia zia Alba, ufficio d’anagrafe del luogo, a testimoniare l’assoluta indifferenza verso persone considerate “altre” in un mondo chiuso che aveva lo scopo di preservare ritmi, ruoli e quotidianità proprie.

La casa subirà danni molto gravi con il terremoto del 1976. Le tre sorelle si trasferiranno in altre abitazioni e con il tempo hanno lasciato la loro professione.

Da allora la casa è rimasta disabitata, ma c’è comunque stata, con i suoi particolari, la sua forma curva, la torre ardita e alla sera, nella luce gialla, sembra ancora viva.

Respira di vita propria, slegata dalle vicende e dal passare del tempo.

Solo la plastica verde che l’ha incartata e i molti cartelli di pericolo la riportano al presente e ad una memoria che non accetta di veder sparire con i muri anche le storie.

Le strade che conducono agli orti conservano ancora intatti i tratti dei volti

I nomadi- Le strade


LA MISTERIOSA FIAMMA DELLA REGINA LOANA

LA MISTERIOSA FIAMMA DELLA REGINA LOANA
Ovvero da Fantomas alle riforme della scuola

Pensieri e riflessioni

In questa fase transitoria di profonda incertezza che ci sta investendo come docenti e professionisti della scuola, mi imbatto sempre più spesso in interrogativi di fondo, dove si pongono quesiti sul futuro dell’educazione e degli obiettivi della formazione.

Non è inconcludente chiedersi quali siano i mezzi e gli strumenti su come il sapere sarà trasmesso da una generazione all’altra. Esiste una memoria transgenerazionale? Come avviene lo scorrimento del sapere, delle conoscenze, delle concettualizzazioni dalla società costituita e dal mondo adulto a quello del bambino?

Su questi interrogativi il romanzo di Umberto Eco “La misteriosa fiamma della regina Loana” sollecita una riflessione. Sembra quasi che Yambo, il protagonista, che si muove nella nebbia di una memoria persa e nel tentativo caparbio di ritrovarla, costituisca la metafora pedagogica fondante del sapere.

UNA MEMORIA DI CARTA

Yambo, uscito da uno stato di coma dovuto ad un incidente, non ricorda chi è, non prova emozioni davanti a se stesso, alle persone care, agli oggetti del proprio vissuto quotidiano. Vaga nella nebbia di un passato completamente buio, la sua prima luce appare nell’attimo del risveglio. Nella sua mente ci sono solo parole, concetti acquisiti, espressioni, esercizi linguistici e letterari, che riemergono a tratti, ma privi di emozioni e del percorso di acquisizione che li ha solidificati.

“Tutte queste cose la memoria accoglie nella sua vasta caverna, nelle sue pieghe segrete e ineffabili, nell’enorme palazzo della mia memoria dispongo di cielo e terra e mare insieme, là incontro anche me stesso…La facoltà della memoria è grandiosa, Dio mio, la sua infinità e profonda complessità ispira quasi un senso di terrore, e ciò è lo spirito, e ciò sono io stesso… Nei campi e negli antri, nelle caverne incalcolabili della memoria, incalcolabilmente popolate da specie incalcolabili di cose, per tutti questi luoghi io trascorro, ora volo qua e là, senza trovare limiti da nessuna parte…”

In questa bellissima citazione delle Confessioni di Sant’Agostino si nasconde il potere della memoria. Essa esiste come fondamento della vita: esiste una memoria del gesto, del sapore, del suono, della parola, dei sensi e delle loro reazioni alle situazioni fisiche e biologiche, ma esiste una memoria che è parte integrante dell’esperienza, del processo di apprendimento, dell’emozione e dell’emotività che genera valori, scelte future, l’essere quella persona e proprio quella.

Se la memoria fisica e biologica per Yambo si risveglia abbastanza in fretta ripercorrendo semplici quotidianità e ritrovando i luoghi e il contesto dove queste si esplicano, l’altra, quella dell’essere, rimane per lui una caverna vuota, una caverna che decide di penetrare da solo…come Tom Sawyer.

Ecco il suo viaggio a Solara, nella casa del nonno dove aveva trascorso la sua infanzia turbata dalla morte dei genitori in seguito ad un grave incidente.

Nel viaggio verso il paese Yambo riscopre il paesaggio come se fosse la prima volta, ma lo sente suo, sente che avrebbe potuto gettarsi a corsa pazza giù per le valli, sapendo dove mettere i piedi e dove andare. Grande assunto di Eco: la memoria ha bisogno di un contesto ove esplicarsi, la storia va contestualizzata, va inserita all’interno di coordinate precise siano esse di ordine temporale, spaziale, concettuale.

Impossibile non confrontarsi con il fare storia a scuola, dove ancora si limita l’approccio disciplinare come narrazione, come racconto di fatti ed aneddoti ordinati nel tempo e localizzati come meteore impazzite che ruotano in un universo di cui non si tiene affatto conto della complessità.

Il ritorno di Yambo: “Non era solo il tentativo di ricordare quello che era stato prima di lasciare Solara, bensì anche quello di comprendere perchè avessi fatto quello che avevo fatto dopo Solara.”

Ed ecco il percorso a ritroso nella propria vita da piccolo, dapprima attraverso gli oggetti della casa, i quadri, le stampe, e poi la soffitta.

Sulle stampe Eco afferma che: “Forse, prima che su molti libri di avventure, ho esplorato la policroma pluralità delle razze e popoli della terra su quelle stampe..” . Ricordo bene queste stampe appartenute a mio nonno, così come i libri di avventura, da Salgari a Verne, Dumas e molti altri, ci consentivano un approccio con il mondo altro che oggi è veicolato molto più velocemente da altri mezzi di comunicazione. La piccola quantità di materiali a nostra disposizione faceva sì che la capacità di analizzare fosse maggiormente sviluppata, guardavamo e riguardavamo le figure, le stampe, le figurine, rileggevamo lo stesso libro tre, quattro, dieci volte scoprendo sempre cose nuove e diverse. Per i nostri alunni questo non esiste più, la capacità di analisi va sviluppata, tutto passa molto velocemente davanti ai loro occhi, è impossibile chiedere di rileggere la stessa storia o lo stesso libro. Forse il mediatore si è modificato: da libro a TV-DVD o videogioco, ma anche questo è limitato perchè le proposte sono talmente tante e pressanti che spingono continuamente verso le novità. Non affermo che i nostri alunni non siano in grado di analizzare, ma ritengo che tale competenza si esplichi in modalità diverse, vada sollecitata, attentivata, ripercorsa. C’è, sta ferma, finchè non trova lo stimolo adatto, la motivazione, il contesto per essere utilizzata.

Con grande emozione ho scorso le parole di Eco che raccontano la rilettura del Nuovissimo Melzi. “…Questa era stata la prima enciclopedia della mia vita e dovevo averla sfogliata a lungo..”. Negli anni sessanta i miei genitori decidono di acquistarmi una Enciclopedia (Conoscere) a rate. Arrivava un tomo al mese ricordo quanto piacere e quanto tempo ho passato su quelle pagine. Anch’io come Eco mi chiedo “Qui si era formato il mio sapere?”

Che dire poi della soffitta? (esistono ancora soffitte?)

La descrizione è talmente personalizzabile che racconta l’ambiente come in un quadro o meglio in una fotografia color seppia:

“Sensazioni immediate. Il caldo…Poi la luce…il sole filtra appena, formando lame gialle in cui si vedono agitarsi infiniti corpuscoli….Infine,il colore dominante…del solaio, dato dalle travi, dalle casse qua e là ammucchiate, dagli scatoloni di cartone, dai rimasugli di canterani dissestati, è un colore da falegnameria, fatto di tante sfumature di marrone, dal giallastro del legno non verniciato alle tenerezze dell’acero, sino alle tonalità più cupe di comò dalle vernici ormai scrostate, passando per l’avorio delle carte che debordano dalle scatole”.

La soffitta di mio nonno era questa, una giungla infinita nella quale entravo di nascosto, per non si sa quale impresa, ma ogni scatola, angolo, pila di carte, libri, fumetti, vestiti e scarpe vecchie, ma anche i manifesti dei film (mio padre e mio zio lavoravano nel locale cinema), i sacchetti delle matrici dei biglietti di ingresso che a noi bambini servivano come mattoncini lego per castelli e paesaggi fantastici, era una avventura sempre nuova dove la memoria di altri si accumulava e trovava i suoi cassetti, passava, scorreva. Quello che sono oggi sono perchè lì “annusavo il passato. L’infinito,(del tempo e dello spazio) percepito dagli occhi di un bambino..”

Le scatole di latta: Eco riporta vari esempi storicamente conosciuti, ma io ne possiedo ancora una. Era la scatola che conteneva dei dadi da brodo: “Lampbrodo”. Anche in questa scatola il fascino sta nella sua “infinità”: vi è rappresentata una via centrale di una città con tanti palazzi dove si affacciano numerosi negozi. Le insegne dei negozi riportano la scritta Lampbrodo e nelle vetrine vi sono altre scatole con la stessa riproduzione e così all’infinito appariva un’altra scatola con la stessa città e le stesse vetrine.

“Si imparano da piccoli, la metafisica dell’infinito e il calcolo infinitesimale, solo che non si sa ancora quello che si sta intuendo”

Eco continua con queste asserzioni pedagogiche fondanti delle didattiche e metodologie delle discipline che spesso dimentichiamo nella pratica, chiedendoci spesso perchè i nostri alunni sono così superficiali, privi di concetti, di saperi. Mi chiedo: forse non sono mai andati in una soffitta?

Non mi soffermo sui tesori della soffitta (fumetti, libri, quaderni, riviste…) ma proseguo con il viaggio di ricostruzione di Yambo che dopo otto giorni di immersione afferma: “Ho capito che quei giorni nella soffitta sono stati spesi male: avevo riletto pagine che avevo sfogliato a sei o a dodici anni, altre a quindici, commuovendomi volta per volta su vicende diverse. Non è così che si ricostruisce una memoria. La memoria amalgama, corregge, trasforma, è vero, ma raramente confonde le distanze cronologiche….sapevo che c’era stata una maturazione, un mutare d’opinioni, un confronto di esperienze….dovevo rimettere le cose per ordine e centellinarle secondo il fluire dei tempi. Chi poteva dirmi quello che avevo letto e visto a otto piuttosto che a tredici anni? Ci ho pensato un poco e ho capito…i miei quaderni di scuola. Quelli erano i documenti da rintracciare…”

Altra lezione epistemologica di Eco: la storia e la memoria è un percorso nei documenti e nella documentazione, ribadisce alcune operazioni proprie della disciplina: scegliere, ordinare, catalogare, periodizzare, tematizzare, ricavare informazioni esplicite e inferenziali. Non posso non andare con amarezza a quei genitori che buttano i quaderni dei bambini al termine dell’anno scolastico, perchè non c’è posto e …tanto non servono più. Sono una parte del proprio vissuto, del proprio percorso di conoscenza e di apprendimento, documentano chi sono stato, chi sono e chi sarò.
Ben esplica Eco l’agire dello storico. “…quello che è poi rimasto è stato…la quintessenza di un montaggio. Ho incollato testimonianze disparate, tagliando, collegando, vuoi per naturale sequenza delle idee e delle emozioni, vuoi per contrasto. Quello che mi è rimasto…era l’ipotesi elaborata a sessant’anni di quello che avrei potuto pensare a dieci…”

E di qui Yambo riparte per un’ulteriore tentativo di ricostruzione del suo passato: ho una ipotesi, la verifico. Come? Raccolgo le testimonianze, le comparo con le diverse tipologie di documenti che ho raccolto, riverifico la mia ipotesi, la confermo o la rielaboro. E’ il percorso che generalmente può essere utilizzato nella didattica della storia attraverso le situazioni problema e le attività di laboratorio che prevedano uso di documentazioni e fonti di vario tipo.

Eco non è nuovo a queste sue lezioni pedagogicamente fondanti. Penso a “Il nome della rosa”, mirabile romanzo di ricostruzione ed indagine che utilizza il metodo analitico, osservativo e deduttivo dello storico, penso a “Il pendolo di Foucault”, dove il lettore è portato ad utilizzare il metodo per arrivare alla logica conclusione del romanzo. Il tutto parte da un testo a buchi, può anche essere una lista della spesa, qualunque cosa. E’ interessante provare esperienze del genere con gli alunni: dare documenti in parte illeggibili e chiedere di ricostruirli sulla base del possibile senso. Ho attuato un’esperienza del genere con alcuni documenti del 1808 relativi alla Commissione di Leva del nostro paese. La mancanza di parole che esplicitassero il significato reale ha spinto gli alunni a fare varie ipotesi, a ricostruire il quadro storico dell’anno nel contesto locale (parliamo del periodo napoleonico), a ricercare informazioni precise (tematizzazione: l’esercito napoleonico, sua composizione, regole, divise…), a ipotizzare di chi e cosa si parla, a ricostruire la narrazione storica, a riempire creativamente le fasi non documentate, le cause e le possibili conseguenze (rielaborazione: “Correva l’anno 1808: la storia di Francescon Alvise”), a verificare e rispondere alla situazione-problema posta all’inizio del percorso (Il fenomeno della diserzione dall’esercito napoleonico: fatti isolati o pratica comune?)

Ritrovo quanto sopra esplicitato nel Pendolo di Foucault e nelle mie note (oramai datate) a margine: la didattica antropologica non come rapporti di causa — effetto, ma come analisi problemica e formulazione di ipotesi che utilizza il percorso nei dati estrapolati da analisi di fonti, dove il lavoro dello storico comprende anche la ricostruzione fantastica in mancanza o con dati (anche parziali). La storia come interpretazione come: “Trovare la verità ricostruendo esattamente un testo mendace

IL TESORO DI CLARABELLA

Riflettere sull’essere e fare di una disciplina da parte del docente è suo dovere fondamentale.

Le questioni che il fare scuola ci pone non sono da sottovalutare. A fronte di un impianto valoriale inaccettabile per le implicazioni discriminatorie, dove la personalizzazione è esaltazione della diversità e incapacità di molti, a fronte di un impianto organizzativo che sostiene un’idea di prestazione e non di qualità, a fronte di un’ottica sempre più votata al risparmio e non all’investimento nella ricerca, la scuola e i docenti hanno la possibilità di utilizzare questo passaggio come occasione di ripensamento del proprio operare.

“Non si tratta solamente di apprendere ad apprendere, ma di apprendere a comprendere, ad emanciparsi dalle false parvenze, di osare uno sguardo audace sul mondo ed a interrogare, senza metterli in opposizione, contenuti e metodi, sapere, cultura e soggetto

Il terreno di gioco sarà sicuramente quello delle didattica laboratoriale. Ripensare ai laboratori non solo come contenitori di apparecchiature e strumentazioni (al massimo di archivi), ma come ambiente originale di conoscenza, che può stare al di fuori o al di dentro di luoghi, spazi, strutture, territori.

I.Mattozzi ben distingue tra “operatività” e “laboratorio”, dove la prima “mette gli allievi in condizioni di apprendere svolgendo esercizi di manipolazione dei materiali di apprendimento”, la seconda “si svolge in un ambiente condiviso e in cui docente e allievi tra loro interagiscono in una fase del processo di costruzione della conoscenza e delle competenze…la didattica laboratoriale deve congiungere il processo di insegnamento con quello di apprendimento”

I laboratori hanno come caratteristica di ripensare il processo di apprendimento/insegnamento, utilizzando didattiche che promuovano lo sviluppo di competenze transidisciplinari, attraverso una forte interattività tra insegnanti e alunni, dove l’apprendimento sia condiviso, dove i materiali e i mediatori didattici siano funzionali allo svolgimento del compito d’apprendimento, dove l’ambiente di realizzazione sia a sua volta il contesto esplicativo del percorso, dove si sviluppino elementi di metacognizione e riflessione.

Cosa faremo correre sul nostro campo di gioco? Una bella “palla da giocare” è sicuramente il territorio. Oltre a contenere al suo interno tutte le opportunità operative necessarie, si pone in ottica transdisciplinare, diventa ponte tra scuola e la conoscenza, aula didattica decentrata e (perchè no) multimediale per i molteplici stimoli che offre.

Come giocheremo la nostra partita? Se partiamo dai romanzi di Eco possiamo affermare che il sapere “storico” (antropologico nel suo insieme, ma anche il sapere e l’essere di un individuo) si costruisce (è quello che ha fatto Yambo per tutto il romanzo, anche se sarà una forte emozione a fargli ricordare chi è). La didattica per problemi diventa una strada percorribile. Non credo sia così diffusa nella pratica quotidiana dei docenti. Il procedere su situazioni problema deve essere frutto di una attività di riflessione profonda che nasca dai bisogni reali di una scuola e del suo territorio. “Il sapere non è soltanto un oggetto esterno a colui che impara, ma anche, e forse soprattutto, un rapporto al sapere concepito come un’interazione tra il soggetto che apprende e i contenuti del sapere; senza una attività di interrogazione che previene direttamente dal discente, il sapere è un sapere morto” (Prof. Alain Dalongeville)

Non si tratta solo di porre domande, ma di far nascere domande e su queste costruire percorsi. Nulla sarà definitivo, ma ogni situazione problema dovrà farne nascere altre, si tratterà di fare ricostruzioni teoriche e complesse, che richiamino più rappresentazioni mentali e punti di vista e che puntino alla costruzione della coscienza critica attraverso il confronto con se stessi e con altri.

La scoperta del vero “tesoro di Clarabella” sta proprio nel sapersi giocare la partita di una scuola di qualità, in grado di riflettere ed operare scelte, anche dolorose sul piano organizzativo, ma che abbiano come centro il bambino e il suo apprendere. Ogni difesa di privilegi e ritmi convenzionalmente costituitisi, impedisce alla scuola di crescere e lascia spazio all’applicazione di meccanismi estremamente pericolosi per il futuro dell’istruzione e della formazione.

Per fortuna c’è Eco….

(Brani tratti da "La misteriosa fiamma della Regina Loana" Ed. Bompiani di U.Eco e "Il pendolo Foucault" Ed. Bompiani di U.Eco)

copia unica

i testi si scrivono, si modificano, si ascoltano, si dimenticano e si ricordano, si fanno a pezzi e si conservano, si manomettono.
e poi un titolo vale l'altro